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DIECI ANNI DI PD. ANNOTAZIONI A MARGINE

04/04/2017
Alla nascita del Pd, nel 2007, la rincorsa al liberalismo economico ha avuto il sapore so­prattutto di una scorciatoia astratta rispetto alla complessità del paese e dei compiti di governo. Il ripensamento dopo la crisi economica. E un controripensamento, passato anche per la smobilitazione culturale della sinistra. Fino al Referendum e al dopo-referendum. Dopo dieci anni, resta da fare lo sforzo teorico, eluso fin qui, e che sia basato poggiare su una visione di lungo periodo dei tragitti da dare al paese e su come farlo uscire dalle secche (reclamare più spesa sociale non basta), su una comune lettura della società, nonché su una comune interpretazione della funzione strategica della sinistra nella società

Lingotto 1.Alla nascita del Pd, nel 2007, la rincorsa al liberalismo economico, per quella dose non indifferente che ha progressivamente informato l’orizzonte politico e intellettuale, ha avuto il sapore so­prattutto di una scorciatoia astratta rispetto alla complessità del paese e dei compiti di governo. Forniva soluzioni semplificate prese a prestito da un’altra cultura che si trasferiva nel Pd. Allo stesso tempo, rendeva difficile dubitare che la giustizia sociale fosse qualcosa di più composito del quadrinomio merito-regole-opportunità-competizione, di ispirazione liberale, e altrettanto lo fossero le ragioni della crescita. E così, le ragioni della coesione. Al di là dei temi di merito, ciò che di quell’im­postazione è penetrato a un certo punto a sinistra, ed è confluito nel Pd pri­ma versione è la parte più semplificatrice: non il riferimento ad una società reale, fatta di aggrega­zioni associative, reti, centri e periferie, e condizioni differenti di partenza, che rendono differenti le ricadute di qualsiasi indirizzo, ma a una società semi anonima di elettori individualizzati, nella quale il consenso si costruisce sul piano dei giu­dizi razionali (secondo il canone di razionalità di chi propugna le soluzioni). Un consenso, quindi, che non viene più ricercato pezzo a pezzo, entrando nel merito delle questioni e affrontandole senza perdere (e far perdere di vista) il tragitto futuro progettato per il paese (ammesso che ci sia), ma un consenso ricercato in una tipica impostazione da partito di opinione (per giunta, non fermo nelle sue opinioni e attento piuttosto a captare gli umori in circolazio­ne). Il punto non è nella questione di liberalizzazioni, sì o “no”, mercato, “sì” o “no”, È nell’abdi­cazione della politica da compiti di strutturazione di un assetto della società e di mantenimento di una guida anche culturale per il paese. Il mercato è stato assunto come sostituto della politica, come categoria buona a tutti gli usi e, soprattutto, a evitare esercizi di immaginazione. (E’ poi tutt’u­no con questa lettura atomizzata della società il cammino che portava verso un vero e proprio sradicamento del Pd dal suo stesso popolo (e dal suo imma­ginario) – partito leggero, partito-movimento, partito culturalmente amorfo, partito del leader, partito mediatico, ecc: tutte scorciatoie parallele, che pun­tavano a una polarizzazione emotiva senza contenuti, ma che erano connaturate al suo atto di nascita).

Ripensamento. Gli anni successivi ereditano il crollo intellettuale di quelli che li hanno preceduti (non certo imputabile tutto al Pd, quanto a ciò che pure a sua volta aveva ereditato, specie dalla bassa qualità dell’opposizione ai governi di centro destra). Ma non si può disconoscere che un tentativo di cambiamento di orizzonti (riflesso in un cambiamento di leadership) vi sia stato. Non è possibile dire quanto in questo cambiamento (nel 2010) abbia contato la crisi economica internazionale - iniziata in contemporanea con la nascita del Pd, ma con la sua fase acuta nel 2009 -, che ha messo in discussione nella sinistra italiana la fermez­za di molte impostazioni “modernizzatrici” e “post ideologiche”, facendo sorgere all’interno un punto interrogativo (riflesso in dubbi, cambiamento di toni, cautele di giudizio, cauto ritorno di tematiche tradizionali) su dove portasse l’orizzonte culturale che si stava all’origine affer­mando. Se è così, è stato un ripensamento debole e durato un periodo di tempo breve. Forse ha contato molto più un susseguirsi di sconfitte elettorali[1].

     Ma nuove sconfitte (e errori considerevoli) riportano le lancette se non al punto in cui erano a un approdo che si pone in una certa continuità (e qualche divergenza) con l’originaria ispirazione culturale[2].

D’altra parte, i tentativi di revisione erano rimasti incerti e deboli, mantenuti tali da un imprintig che aveva reso la sinistra italiana nel suo complesso poco avvezza a una elaborazione che guardasse oltre la contin­genza e fosse capace di sfidare il consenso dei media. Non aveva trovato la formazione di un gruppo dirigente adeguato, né avviato un tentativo di vera e propria ricostruzione culturale dopo anni di empirismo. Per sovrapprezzo, la trasfor­mazione della crisi mondiale in crisi dell’euro – che ha colpito specificamente l’Italia e l’ha portata vicina alla bancarotta – aveva reso la contingenza economica oggettivamente soverchiante. Essa lasciava pochi margini di manovra alle politi­che economiche e teneva in scacco ogni determinazione a virare verso una rin­novata identità, perché difficilmente le politiche potevano discostarsi da ricette rese semi-obbligate dalla cautela del rigore. La crisi italiana ha imposto, inoltre, l’esercizio di una responsabilità nazionale (che è sicuramente la miglior dote ereditata dai partiti della Prima Repubblica, ma che in sé non aiuta a definire l’identità e rischia, in mancanza di un progetto e di un pensiero forte, di fissare nell’opinione pubblica l’imma­gine di una sinistra come “ruota di scorta” per le emergenze).

Controripensamento. Una piena legittimazione di una proposta politica “modernizzatrice” non poteva più trovare una barriera quando si è presentata, accreditata e sostenuta dai media, con le potenzialità di riportare la sinistra in modo pieno al governo. Certamente non poteva trovarla nei deboli fondamentali di riferimento dei suoi militanti e elettori, dopo decenni di smobilitazione culturale, Sul terreno della “primazia del calcolo politico”, cui militanti e elettori erano ormai stati educati, non è sorprendente che essi abbiano tirato le somme e privilegiato la possibilità di puntare sulla prospettiva di riacquistare una forza congrua per la conquista del governo, prima di chiedersi per fare cosa. In più, era difficile tenere in prima linea i contenuti quando le classi dirigenti ereditate da una lunga storia – ripiegate su sé stesse e involute - apparivano ormai da sostituire e ve ne era l’opportunità.

Sui connotati del partito più rappresentativo della sinistra ha anche agito una pressione esterna. Non bisogna sottovalutare una storia del Paese, dove ha operato una sorta di conventio ad excludendum che gran parte (se non tutto) l’establishment italiano ha coltivato verso la sinistra al governo. Non che la sinistra non dovesse in assoluto governare, ma che lo potesse fare sotto tutela, ben sorvegliata e incastonata in ambiti di azione accettati (o tollerati). Addirittura poteva essere molto utile averla al governo per neutralizzare un opposizione che si sarebbe determinata nella società su provvedimenti di “modernizzazione” e razionalizzazione del Paese, che i governi avrebbero avuto difficoltà a far passare se l’avessero esclusa. Quel pallido ripensamento che sembrava avviato come seconda fase del Pd deve aver fatto apparire la minaccia di una sinistra che si apprestava a governare in proprio, per giunta con una inclinazione – certamente percepita alquanto fuori proporzione – socialdemocratica[3].  La confusione culturale nella sinistra, la paralisi della leadership, lo scarso prestigio e credito che si era guadagnato un partito che si autoperpetuava da tempo infinito nei rituali della politica, nonché l’inadeguatezza del suo strato dirigente diffuso, devono aver fatto apparire a questo establishment – espresso dai responsabili di media, dal mondo di vertice della finanza, e dell’industria, grand commis, opinion leaders, centri di diffusione culturale, ecc. – propizio il momento per impegnarsi in una sorta di Opa.  Non certo come obiettivo concertato, organizzato o preordinato ma come confluenza spontanea mossa da un comune sentire, quello di porre quanto meno argini a chi (il Pd come percepito) poteva affrancarsi dalla conventio ad escudendum o alterare  lo statu quo nelle questioni di potere e influenza sulla società. Il momento era propizio per aiutarlo a far propria un’agenda liberale, in mancanza di un moderno schieramento conservatore adeguato a percorrere una strada che quel mondo percepiva come necessaria alla modernizzazione del Paese. D’altra parte, è sempre stata aspirazione degli interessi più forti esprimere i dirigenti politici attraverso cooptazioni. Forse l’obbiettivo era di puro contenimento ma una sconfitta elettorale e errori evidenti di gestione di quella stessa sconfitta del 2013, l’hanno reso un successo completo. 

Lingotto 2 (virtuale e effettivo). Pur rimanendo vero che la preminenza nell’attuale Pd appartenga a quelle correnti interne di pensiero inclini a recidere anche quei deboli residui legami ideali con un’eredità (di ispirazione popolare), giudicata ap­partenente al passato, non è del tutto corretto affermare che le lancette siano tornate esattamente dov’erano prima della parentesi che aveva segnato il debole ritrarsi da concessioni troppo pronunciate alla cultura dominante. 

Vi è stato un ricambio generazionale e di gruppi dirigenti, che è pur sempre un segno positivo. Ne è da sottovalutare la necessità di corrispondere all’enorme desiderio di cambiamento presente nel Paese. D’altra parte, la leadership si è guardata bene dall’identificarsi totalmente con quell’establishment che l’aveva supportata e incoraggiata, né si può dire con certezza che ne rappresentasse porzioni specifiche. Condivideva con essa, tuttavia, la filosofia: che solo in una frontiera business friendly spinta il più avanti possibile fosse riposta l’opportunità di rilanciare la crescita.

In quell’ambito culturale essa è rimasta imprigionata. Certo, l’assenza di ancoraggi, il mito della discontinuità, il nuovismo non portano a una identità definita o a sfidare la cultura dominante, ma, - nel pragmatismo magmatico e privo di ossatura che quell’insieme comporta - era lecito attendersi che contemplasse, assieme a soluzioni e indirizzi tratti dall’armamentario dominante di impronta liberista, altri col segno di sinistra che le vecchie dirigenze, sempre pronte a compromessi col moderatismo, non avrebbero osato contemplare. E, in un primo tempo, è proprio sembrato che fosse così[4]. Poi la bilancia ha pesato decisamente sempre più da una parte e la virata in quella direzione è diventata irresistibile. Nell’eterno presente in cui vive la politica, gli indirizzi pronti per l’uso che sono stati adottati appartengono alla “saggezza” convenzionale o/e sono a immediato rendimento elettorale[5]. La prospettiva di fondo è indecifrabile e non contiene un’idea di futuro capace di radicarsi nel corpo del Paese. Mettere in moto e ridare efficienza alla società italiana può essere un utile intento, ma non sembra abbia prodotto altra idea che la verticalizzazione delle istituzioni pubbliche o l’introduzione di logiche privatistiche. Non si è trattato più di una leadership a vari livelli mediata da soggetti politici autorevoli. La presa di distanza dai corpi intermedi è stata marcata e non casuale. Il presente è sembrato voler cancellare tutto il passato, smantellando pezzo a pezzo ciò che era stato costruito. Anche la politica è sembrata riservata a un élite, e quindi pensata come necessitante di un esecutivo forte, libero da eccessivi condizionamenti in un disegno istituzionale pericolosamente privo di check and balances.

Quando si attribuisce al “nuovo” corso del Pd due forti innovazioni portate nella politica, vale a dire l’adeguamento alla “democrazia del pubblico” e aver schierato senza ambiguità il Partito nell’ambito liberale del pensiero democratico[6], occorrerebbe stare attenti a considerarle separate e non due facce della stessa medaglia. Anche considerarle innovazioni in senso proprio è azzardato, in quanto sono un ricongiungimento con quanto già impostato all’origine del Pd. Certo la personalità e l’attivismo del leader – autentico cavallo di razza della politica – fanno una differenza non banale. Ma, di nuovo, entrambe quelle “innovazioni” sono piuttosto scorciatoie che appartengono all’incapacità della nostra classe politica di accettare la complessità dei problemi di una società moderna.

Verso il referendum. La scommessa è sembrata elettoralmente vincente come se attorno al Pd potesse nascere un corpo centrista capace di rappresentare il polo che esclude le avventure e le incognite che deriverebbero dall’affidamento della rappresentanza politica maggioritaria del paese a forze antistituzionali e con scarsa cultura di governo o dalla riproposizione di esperienze di centro destra, ormai in discredito per risultati o affidabilità liberale. La convinzione di usufruire di una rendita di posizione ha oscurato nel Pd la consapevolezza che l’unico asse politico da dare al Paese fosse un’alleanza tra un centro che guarda a sinistra e un centro sinistra di genuino stampo socialista democratico e europeista. E quell’alleanza era per giunta già interna al Pd; bastava riconoscerla e cementarla.  La convinzione di godere di quella rendita di posizione, invece, ha portato ad accentuare i caratteri a-ideologici e rifuggire da opzioni culturali, ammiccare a un ceto moderato (che solo una cattiva analisi può pensare che esista in Italia), spingendo quel centro-sinistra interno di fatto all’opposizione. Per essere veramente vincente quell’azzardo autoreferenziale doveva sfondare in almeno due direzioni, l’economia e il partito. La situazione del paese era (/è) troppo in bilico e troppo deteriorata (accrescendo le aree di sofferenza), perché il conglomerato di situazioni e domande che convogliava potesse mantenere al Pd la preminenza senza una robusta ripresa della crescita, che ha stentato ad affermarsi e per la quale non vi era una ricetta, e tanto meno una capacità di monitoraggio e guida dei processi. Nessuna delle risposte si è mostrata veramente efficace, pur in condizioni favorevoli di svalutazione dell’euro e vero e proprio crollo dei prezzi delle materie prime e del petrolio e di politica monetaria espansiva della Bce. Per mantenere le posizioni di preminenza nella politica italiana il Pd avrebbe dovuto anche mantenere (forse è meglio dire, acquisire) un prestigio come formazione politica, mentre il rinnovamento, al contrario, si dimostrava di facciata se lasciava il partito in periferia spesso in mano a mediocri potentati locali, che certo non contribuivano alla sua immagine. Al centro, poi, la qualità non risultava immensa. La fiducia illimitata nelle doti fattiva e trascinatrici della leadership va bene per un periodo, ma l’acclamazione non può sostituire la partecipazione e senza la visione collettiva della politica è politica stessa a perdere prestigio e indurre smobilitazione e disincanto, che poi inevitabilmente travolge il partito pivotale dello scacchiere.

 Post referendum. Ciò che è maturato, vale a dire il centro sinistra interno diventato ormai esterno e la perdita di contatto col paese da parte del Pd, sembrerebbero creare più spazio di ieri perché possa definirsi una identità a sinistra, che prenda le distanze dalla prospettiva (innanzi tutto culturale) offerta dal Pd e si riconnetta a una “concezione del mondo” socialdemocratica, che stentava a definirsi quando i dirigenti della sinistra pretendevano (impropriamente) di garantirla nella loro persona. Certo questo non può avvenire nei termini chiusi che legittimino regressivamente quella contrapposizione tra “vecchio e nuovo” con cui l’attuale dirigenza del Pd ha tentato di saltare a piè pari il problema dell’identità. Né può avvenire solo di rimessa, nell’opposizione a indirizzi e opzioni culturali non condivise, ma in una visione progettuale che possa essere proposta alla società quanto all’interno della sinistra. Questa proposta è per ora un patrimonio che, più che posseduto è da costruire. Il rischio della sinistra è un’opposizione che si confini in una impostazione di tipo politicistico, che non riesca ad avere una percezione (né un’analisi) di come e perché ha perso la partita, che non faccia emergere una leadership, che non disponga di un programma e di un’idea del Paese e soprattutto non riesca a ergersi come candidata a governare.

Siamo tornati al nodo, sempre eluso dal Pd e che ora non si ha più alibi per eludere, di uno sforzo teorico che sia capace, pur in un conflitto aspro, di sintesi rivolta a tutta la sinistra (Pd compreso) e capace di valorizzare e proporre un’asse identitario di tipo progettuale, programmatico e soprattutto (perché rimasto troppo trascurato) culturale. Se si trattasse di una identità nell’avversione all’attuale dirigenza del Pd sarebbe poca cosa.  Deve piuttosto poggiare su una visione di lungo periodo dei tragitti da dare al paese e su come farlo uscire dalle secche (reclamare più spesa sociale non basta), su una comune lettura della società, nonché su una comune interpretazione della funzione strategica della sinistra nella società italiana, oltre che su un fondamento comune di proposizioni e idee sulla società e sulla politica, sulle relazioni di causa-effetto che muovono l’economia e la società, nonché sull’utilizzo di idiomi e universi simbolici; il tutto finalizzato a una rappresentazione delle alleanze sociali. Solo così la sinistra può riprendere il suo spazio in Italia e questi dieci anni potrebbero perfino essere considerati utili.

[1] Tra il 2008 e il 2010. Oggi suscita una certa impressione che la leadership di allora rivendichi a proprio merito il miglior risultato elettorale del Pd in elezioni politiche (33% di voti nel 2008), perché quel risultato attiene alle speranze e alle attese degli elettori di fronte alla novità di un partito ancora ignoto; ma che – alla verifica - ha perso rapidamente percentuali altissime di consensi, e, più che altro, ha perso credito e stima.

[2] E siamo ormai ai giorni nostri, al 2013

[3] Qualcosa andava effettivamente in questa direzione, la presa di posizione sul referendum contrario alla privatizzazione dell’acqua, toni diversi nei riguardi delle questioni del lavoro, un pronunciamento per una più accentuata pro­gressività delle imposte; un riconoscimento, per lo meno verbale, alla necessità di politiche industriali e per l’occupazione ecc.

[4] Con le 80 euro e l’adesione al gruppo socialdemocratico europeo, l’inasprimento della tassazione sui guadagni finanziari-

[5] Il governo ne ha abbondato dal mercato del lavoro, alle banche popolari, alle privatizzazioni di Poste e (annunciata) di Ferrovie, la scuola, fino l’abolizione del finanziamento pubblico della politica, l’attenuazione dell’unica imposta patrimoniale, gli sgravi alle imprese senza contropartite, bonus al posto delle politiche  e fino alle concezioni leaderistiche della democrazia.

[6] M. Salvati, Le due innovazioni di Matteo Renzi, è in “Il Mulino”, n. 6, 2014.

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