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Cinque punti critici sui quali riflettere dopo la decisione sui tassi presa dalla Federal Reserve Usa

17/12/2015
Dalla consistenza dei debiti in una economica globale largamente "dollarizzata" all'inflazione congelata, dai debiti delle famiglie a quelli dei governi, fino alla debolezza e ai rischi di una ripresa caratterizzata da un forte aumento delle differenze sociali, da bolle sui titoli ad alto rischio, da fenomeni di deterioramento dell'occupazione. In allegato i documenti per la conferenza stampa di Janet Yellen e le proiezioni economiche della Fed.

Le borse hanno risposto positivamente all’atteso e già scontato rialzo dei tassi di interesse statunitensi deciso dalla Federal Reserve Usa per la prima volta dopo quasi dieci anni di cali e ben otto di tassi a zero (in allegato il testo dello statement per la conferenza stampa del governatore Janet Yellen e le previsioni economiche del board Fed). Ma questo non significa che tutti i problemi siano stati superati. Perché la ripresa che c’è è debole, perché incombono rischi, perché i Paesi in via di sviluppo sono già in difficoltà e l’Europa è ancora debole e in convalescenza.

Da qui la necessità di spingere con ottimismo il pedale della volontà, continuando a lavorare per irrobustire la ripresa (ma certo bisognerebbe cambiare politica economica e dare vita a una campagna massiccia di investimenti pubblici), e nello stesso tempo di mantenere ben pigiato anche il pedale della ragione, capendo quali sono i punti critici sui quali riflettere nel momento in cui dopo otto anni i tassi Usa tornano a crescere.

  1. L’economia mondiale è “dollarizzata” per oltre il 60 per cento del suo valore. In particolare, negli anni del dollaro deprezzato, della liquidità abbondante e dei tassi di interesse azzerati, governi e im prese dei Paesi emergenti si sono indebitati in dollari in modo consistente. Secondo Rbs, dal 2009 al 2014, per esempio, le imprese dei Paesi emergenti hanno raddoppiato il proprio indebitamento toccando i 2.400 miliardi di dollari. Oggi le aziende di Cile e Perù hanno debiti per l’80 per cento denominati in dollari; la Turchia per il 75 per cento; l’Indonesia per il 70; il Brasile per il 60. La fine dell’era dei tassi a zero e una ripresa (peraltro già avvenuta) delle quotazioni del dollaro Usa si riveleranno presto un freno pesantissimo e anche un rischio per queste economie.
  2. Lo stesso vale per i governi dei Paesi emergenti. Standard & Poor’s ha già annunciato che, considerato lo stato dell’indebitamento pubblico nelle condizioni attuali, nel 2016 numerose saranno le decisioni relative a declassamenti nel rating.
  3. L’indebitamento delle famiglie in Paesi dove la ripresa dei tassi di interesse Usa potrebbe provocare un rincaro del denaro a discapito anche dei debiti familiari è davvero di dimensioni importanti. Sempre secondo dati Rbs, 186 per cento del proprio reddito in Australia; 141 per cento in Gran Bretagna; 106 per cento in Usa.
  4. L’inflazione che è un rischio quando è troppo alta ma che rende l’indebitamento più difficile, molto più difficile da smaltire quando non si muove, oggi di fatto ristagna. La digitalizzazione dell’economia sta consentendo guadagni di produzione con abbattimento di costo, l’invecchiamento accentuato delle popolazioni frena i consumi.
  5. Infine, ma certo non in ordine di importanza la salute e la robustezza della crescita economica. In Europa, l’ultimo bollettino economico della Bce sostiene che non si arriverà a toccare una crescita del due per cento nei prossimi anni. Certifica che l’arretramento è finito, ma anche che la crescita reale arriverà al massimo all’1,9 per cento del 2017. Negli Usa va un po’ meglio, la crescita risulta un po’ più accentuata rispetto agli altri Paesi avanzati, ma non arriva certo al 3 per cento e non è esente da debolezze pericolose, ragione per la quale la Federal Reserve Usa si è mossa e si continuerà a muovere con grandissima prudenza e gradualità sul sentiero del rialzo dei tassi di interesse. Pochi fatti, messi uno dietro l’altro, possono bastare per capire di che cosa si tratti. Primo: una parte della spinta all’economia Usa è venuta dallo sviluppo tumultuoso delle imprese nel settore dello shale oil (l’estrazione di greggio grazie alla frantumazione delle scisti bituminose a grandi profondità) e dalla conseguente abbondanza di petrolio nazionale a disposizione. Ora però il prezzo del petrolio è sceso (anche per le contromosse Opec) a prezzi che azzerano o comunque offrono molti meno margini di guadagno e le imprese dello shale oil che si sono indebitate fino al collo per decollare si trovano ora a dover affrontare la stagione della risalita dei tassi di interesse sui debiti in dollari. Gran parte del sistema industriale Usa è caratterizzato da alti debiti e competitività non proprio eccellente. Secondo. La disoccupazione è calata a livelli non comparabili con quelli europei. Ma non è tutto oro luccicante. Dietro il dato generale si nasconde un cambiamento importante nella composizione e nel valore dell’occupazione negli Usa: è calata in modo drammatico la partecipazione alla ricerca del lavoro (di fatto, un aumento importante del numero degli scoraggiati). Terzo. Negli anni della crisi la classe media ha fatto passi indietro dal punto di vista del reddito e si è ridotta in modo straordinario, mentre sono cresciuti il numero dei più ricchi e il numero dei più poveri: per la prima volta dal Dopoguerra, le persone classificabili come classe media sono risultate di meno della somma tra i più abbienti e i meno abbienti, 120,8 milioni contro 121,3 milioni; secondo il Pew Center oggi il 20 per cento degli americani percepisce i redditi più bassi (il 16 per cento nel 1971) mentre il 9 per cento percepisce i redditi più alti. E il reddito medio della classe media ha perso il 4 per cento del proprio valore reale in 14 anni. Dunque, più divergenza, più disuguaglianza, minore coesione e stabilità sociale. Quarto. Con la prospettiva di una ripresa dei rendimenti sui titoli pubblici statunitensi  e di altre forme di investimento sicuro (in parallelo alla risalita dei tassi di interesse sui crediti), l’ondata di riscatti dai fondi specializzati nei titoli a cosiddetto High-Yield , ad altissimo rendimento, spesso definiti trash, sta già mettendo in difficoltà alcuni colossi dell’industria finanziaria Usa.    

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