
Sul Sistema bancario ombra si chiude la stalla quando i buoi sono già fuggiti, e da molto tempo. Come si legge nel comunicato finale della riunione svoltasi in Turchia domenica 15 e lunedì 16 novembre, il G20, il gruppo dei venti Paesi più industrializzati del mondo, "continua a seguire con attenzione e, se necessario, a risolvere i possibili rischi e vulnerabilità nel sistema finanziario, molto dei quali potrebbero emergere al di fuori del settore bancario". A questo riguardo, il G20 "intende rafforzare la vigilanza e la regolamentazione del sistema bancario ombra" così da "garantire la tenuta della finanza orientata al mercato e in modo adeguato al rischio sistemico che comporta".
La decisione presa dai principali governi del mondo è lodevole. Soprattutto se si pensa a quanto sia importante lottare contro l’opacità della finanza e del credito per impedire traffici illeciti, eccessi di speculazione, diffusione di prodotti tossici e perfino forme di finanziamento occulto di organizzazioni terroristiche.
Peccato, però, che lo shadow banking, cioè le attività di credito e finanziarie che vengono svolte al di fuori del sistema regolamentato e vigilato delle banche tradizionali, finora sia stato lasciato libero di svilupparsi. Come un enorme cancro. Al punto che oggi rappresenta una parte grandissima dell’intero sistema finanziario globale e uno dei pilastri su cui poggia l’economia in tutto il mondo.
Per capirlo basta scorrere l’ultimo rapporto diffuso giovedì 12 novembre 2015 dal Financial stability board, l’organizzazione nata nel 1999 su iniziativa dei governi del G7 per promuovere la stabilità finanziaria e ridurre i rischi. Nel 2014, si legge nel rapporto, l’ammontare delle attività considerate shadow banking è cresciuto di 1.100 miliardi di dollari, toccando i 36 mila miliardi di dollari nelle economie prese in considerazione dal FSB (Australia, Canada, Germania, Francia, Hong Kong, Irlanda, Italia, Giappone, Korea, Olanda, Singapore, Spagna, Svizzera, United Kingdom, Usa, Argentina, Brasile, Cile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia, Turkia, Arabia Saudita, Sud Africa). La somma è pari, grosso modo, al 59 per cento di tutto il Prodotto interno lordo di quegli stessi 26 paesi. Ed è solo una parte del problema. Le attività dei cosiddetti Other Financial Intermediaries, cioè di altre imprese che operano nel mondo del credito e della finanza senza essere banche tradizionali e quindi non sottoposte agli stessi regimi di vigilanza e di garanzia, sono ammontate nel 2014 a circa 68 mila miliardi di dollari (sempre nelle stesse aree prese in considerazione). Le due realtà, quella dello shadow banking e quella degli Ofi, in parte sono sovrapposte. Una stima sull’insieme di questo aggregato, depurata delle sovrapposizioni, arriva alla somma di circa 80 mila miliardi di dollari. Per capire che cosa significhi questo dato, lo stesso Financial stability forum ricorda che l’insieme delle attività creditizie tradizionali, vigilate e regolamentate, nei paesi presi in considerazione ha toccato nello stesso 2014 la somma dei 135 mila miliardi di dollari.
Quanto all’Italia, il valore delle attività di shadow banking ammonta a circa 400 miliardi di dollari (18,4 per cento del PIL), come ha spiegato Carmelo Barbagallo, capo del Dipartimento Vigilanza Bancaria e Finanziaria della Banca d’Italia, in un intervento al Nifa, New International Finance Association World Finance Forum 2015.
Le stalle sono ben vuote, dunque. Mentre tutti gli organismi di vigilanza sul sistema creditizio si affannano in questo periodo a chiedere continui rafforzamenti dei criteri patrimoniali e delle misure di sicurezza, in modo da evitare disastri e garantire che il risparmio dei cittadini non venga gettato al vento, per motivi di convenienza, di profitto, di riguardo per ogni forma di affare capace di portare profitto, si è lasciato che le stesse banche vigilate o altri organismi si lanciassero in iniziative creditizie e finanziarie fuori da ogni controllo. Si dice che il pericolo maggiore dello shadow banking venga dalla Cina. Ma i dati confermano che altrettanto sviluppato è il fenomeno negli Usa e nei principali paesi ad economia avanzata.
Tutto questo prova che i disastri provocati dalla crisi del 2007 non sono serviti da insegnamento e che il problema dell’economia finanziaria, e del potere che ormai esercita anche sulla politica, è diventato uno dei punti nodali da affrontare. E il primo, vero passo da compiere è di riconoscere che l’idea secondo la quale le regole impediscono lo sviluppo è sbagliata: di fatto, è solo un’ideologia veicolata dagli interessi connessi agli enormi profitti che la finanza garantisce a pochi, salvo dividere poi il costo dei disastri fra tutti i cittadini del mondo.
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