
Il programma fiscale di Matteo Renzi si fonda su tre presupposti: la possibilità che la spending review produca effetti concreti per almeno 10 miliardi di euro nel 2016, la possibilità che la crescita dell’economia italiana sia più alta di quanto previsto ufficialmente nei documenti di contabilità nazionale (ministro Padoan dixit) e la possibilità che, a fronte delle riforme varate dall’Italia, l’Unione europea conceda al nostro Paese un margine di flessibilità ampio per ridurre le imposte e sostenere per questa via un’accelerazione dello sviluppo. 
A prescindere dall’opinione che ciascuno può avere sulle singole scelte annunciate dal presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico, può essere interessante mettere in fila i fatti concreti che riguardano le tre possibilità- presupposto dell’intero programma. 
La flessibilità. Pierre Moscovici, commissario all’economia dell’Ue, ha già annunciato: “Non abbiamo avuto ancora alcuna comunicazione. Valuteremo sulla base delle regole”. Già, ma che cosa dicono le regole e a che punto siamo noi italiani, che appena qualche tempo fa eravamo sottoposti a una procedura di infrazione? 
Sul piano del deficit pubblico, il fiscal compact dice che l’Italia non potrebbe spostare l’obiettivo di medio termine, e cioè quello di raggiungere un saldo strutturale a zero nel 2017 e anche un indebitamento nominale a zero nel 2018. Tanto più che a causa della cattiva congiuntura prima e delle riforme approvate poi l’Italia ha già usufruito di una certa flessibilità nel 2015 e già anche per il 2016: la correzione che dovevamo apportare per il prossimo anno doveva essere pari per valore allo 0,5 per cento del Prodotto interno lordo. L’Ue ci ha concesso di correggere solo lo 0,1. Va anche detto che per fortuna l’Italia non è più né in recessione, né in deflazione. Quindi non ci sono più le condizioni per chiedere una flessibilità legata all’andamento negativo dell’economia. 
Sul piano del debito bisogna invece ricordare che l’Italia è uscita dalla procedura di infrazione nel 2013. Nel 2016 finirà dunque la fase di alleggerimento prevista in questi casi. Ciò significa che l’Italia, in base alle regole, dovrebbe cominciare a ridurre dal 2016, ogni anno, un ventesimo del debito pubblico eccedente il 60 per cento del Prodotto interno lordo. L’ultimo dato fornito dalla Banca d’Italia indica 2.218 miliardi di euro, un valore che supera il 130 per cento il Pil. Questo non significa che non sia possibile. Ma è chiaro che la trattativa non sarà facile, ne basata solo sulle chiacchiere: dovremo dimostrare che con la riduzione delle tasse il Pil potrà crescere così tanto da far calare il rapporto tra valore del debito e valore del Pil; sarà necessario dimostrare che i tagli di spesa necessari a trovare almeno una parte delle risorse saranno non solo strutturali ma anche tali da imprimere una spinta al ribasso del debito; il governo italiano dovrà dare assicurazione sul frutto concreto delle privatizzazioni: “Il raggiungimento dell`obiettivo di convergenza è dovuto da un lato al progressivo miglioramento del deficit, che passa dal 2,6 per cento del 2015 al pareggio del 2018, e al programma di privatizzazioni per complessivi 1,7 punti di Pil, circa 29 miliardi 
di euro” ha scritto l`Ufficio parlamentare di Bilancio nel suo Rapporto di maggio sulla programmazione di bilancio, documento pubblicato dopo che Bruxelles aveva già riconosciuto la clausola di flessibilità legata alle riforme strutturali. 
L’Italia potrebbe giocare in questo contesto sulla clausola destinata a favorire gli investimenti: il governo italiano dovrebbe dire, cioè, che la riduzione delle imposte serve a liberare risorse per fare investimenti. In effetti, pur non essendo più in recessione e in deflazione, il Paese cresce al di sotto delle proprie potenzialità. Dunque, potrebbe aprire questa porta. In tal caso però gli investimenti dovrebbero essere in cofinanziamento con l’Ue. 
Infine, i tempi: bisogna ricordare che la Commissione Ue ha rinviato all`autunno la definizione o meno di “rapporto secondo l`art.126.3 del Trattato”, di fatto una prima messa sotto accusa del debito. 
La spending review. Molte sono le attese, dato che da Palazzo Chigi ha già assicurato che verranno tagliati per questa via almeno 10 miliardi di euro di spese. Serviranno a disinnescare le clausole di salvaguardia per il rispetto degli obiettivi europei, già computate nella tabella di marcia concertata con Bruxelles: in tutto erano 16,2 miliardi di euro da trovare per non aumentare Iva (al 24%) e accise, ma che sono scesi a 10, tenendo conto dei 6 miliardi di euro derivanti dalla flessibilità già ottenuta in maggio dall’Ue (una correzione dei conti pari in valore allo 0,1 invece che dello 0,5 per cento del valore del Pil). Ci saranno? E’ auspicabile. Intanto bisogna prendere atto dei fatti: nella spending review per il 2015 erano previsti risparmi di spesa per 2,5 miliardi sul Fondo sanitario nazionale. Ma il servizio Bilancio del Senato ha segnalato in questi giorni la difficoltà a raggiungere davvero l’obiettivo.
La crescita economica. Molti segnali indicano che vi sono spinte alla crescita più forti del previsto. Ma attenzione: non riguardano tutti i settori produttivi, e neppure tutte le diverse aree del Paese. Soprattutto, è sempre più evidente che l’Italia corre sulla base di condizioni esterne molto favorevoli, ma sulle quali nessuno può dare certezza per il futuro. In conclusione, è possibile che la crescita sia più robusta del previsto, ma nel caso, pur rallegrandoci di questa eventualità, il realismo dice che si potrebbe trattare di uno o due centesimi di punto. E, per non essere assegnati d’ufficio alla categoria dei gufi o dei musi lunghi, lasciamo che i rischi sulla stabilità delle positive condizioni esterne restino solo nel regno delle possibilità remote.
Conclusione. Non è impossibile che la corsa all’approvazione delle riforme e il posizionamento assunto dall’Italia in Europa riescano a facilitare una trattativa sulla flessibilità sui nostri conti pubblici, né che l’Italia cresca qualcosina in più e neppure che sia irraggiungibile l’obiettivo della spending review. Ma: a) non vi sono certezze; b) le dimensioni non saranno significative; c) sulla spesa e sul resto degli obiettivi non basteranno le promesse.
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