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Fuga dalle urne: verso un confronto tra sistema e antisistema

13/05/2016
In questo saggio Fornaro ripercorre, dati alla mano, le diverse tappe della partecipazione elettorale in Italia: dal voto per censo, al difficile cammino verso il suffragio universale, bruscamente interrotto nel ventennio fascista; dalla “Repubblica dei partiti” in cui i partiti di massa veicolavano una partecipazione pressoché totale e votare veniva visto come un obbligo civico, ai primi segnali di volatilità elettorale negli anni Ottanta; dalla “seconda Repubblica” fino alla “tempesta perfetta” del 2013 in cui si sono saldate tendenze di breve e lungo periodo causando una vera propria fuga dalle urne.

(*) In un suo scritto sulla Democrazia, Gherardo Colombo (2001) ci ricorda che "La democrazia è complicata e complessa, perché spartendo e diffondendo il potere esige dialogo, confronto e mediazioni continue. Necessita di informazione e cultura. Ha bisogno di attenzione assidua, non consente distrazioni, va costruita e mantenuta ogni giorno. La democrazia non può prescindere dalla partecipazione. La democrazia è faticosa, impegnativa, difficile".

A conferma della complessità e delle insidie dell'età contemporanea, è necessario partire nei nostri ragionamenti e riflessioni critiche sulla partecipazione elettorale e l'astensionismo in Italia, da un paradosso della modernità, di cui non vi è una diffusa consapevolezza.

Mai come ai giorni nostri, infatti, la percentuale della popolazione mondiale favorevole alla democrazia è stata così elevata: alla domanda se la democrazia sia «un buon metodo per governare il loro paese» il 91,6% degli intervistati di 57 nazioni diverse, rappresentativi di quasi l'85% della popolazione mondiale, ha risposto affermativamente (Van Reybrouck 2015).

Oggi, ci sono nel mondo 117 democrazie elettive (90 considerate democrazie effettive) su di un totale di 195; erano 72 nel 1993, 44 nel 1972, mentre all'indomani della conclusione della seconda guerra mondiale le democrazie degne di questo nome erano solamente 12.

Ebbene, questa vittoria della democrazia sulle altre forme di governo è accompagnata dal più basso livello storicamente raggiunto nella fiducia nei parlamenti, nei governo e nei partiti.

Una crisi di legittimazione che si manifesta attraverso un costante aumento dell'astensionismo, una elevata «infedeltà» nel voto, misurata dall'indicatore della «volatilità elettorale» e infine da un calo di adesione ai partiti politici.

Il declino della partecipazione elettorale è stato recentemente certificato in Italia dalla più bassa percentuale di votanti nella storia repubblicana fatta registrare nelle elezioni politiche 2013 (75.1% per la Camera dei Deputati), a cui hanno fatto seguito performance di astensionismo senza precedenti nel 2014 e nel 2015, rispettivamente nelle regionali dell'Emilia Romagna (37,7%) e della Toscana (48,3%), due delle regioni italiane contraddistinte da straordinari livelli di civismo e di diffuso e radicato impegno associativo e politico (Cartocci, 2007).

I dati sull'astensionismo spesso sono analizzati con l'attenzione che meritano solamente all'indomani dello scrutinio dei voti: un «grido di allarme» sullo stato di salute della nostra «democrazia rappresentativa», che da un po' di tempo a questa parte giunge, puntualmente, dalle urne.

Un messaggio chiaro di disagio che finisce, però, per essere velocemente travolto e oscurato dai commenti e dalle dichiarazioni sui risultati espressi in percentuale sui voti validi e quindi dai seggi ottenuti dai diversi partiti e coalizioni.

Eppure la partecipazione elettorale rappresenta uno dei principali indicatori del corretto funzionamento del rapporto tra cittadini e istituzioni e quindi, in ultima istanza, della democrazia, anche se il sociologo statunitense Seymour Martin Lipset è arrivato fino al punto di sostenere che «la convinzione che un alto livello di partecipazione sia sempre una buona cosa per la democrazia non è valida». Una tesi forte che si fonda sulla riflessione critica che un'alta partecipazione nella storia del Novecento spesso è stata spesso sintomo di una radicalizzazione delle divisioni e del conflitto politico, con ripercussioni negative sulla stabilità della stessa democrazia (Raniolo, 2007: 202).

In altri termini, per Lipset l'astensionismo non rappresenterebbe un allarmante segnale di crisi e di delegittimazione del sistema politico, trovando una conferma empirica a questa tesi proprio nella tendenza in atto da tempo nelle maggiori democrazie occidentali ad un declino della partecipazione elettorale pur in presenza di istituzioni stabili.

In aperto contrasto con questa interpretazione del fenomeno della crescente diserzione dai seggi, Gianfranco Pasquino (e noi con lui) sottolinea, invece, come il non voto indebolisca la democrazia e rappresenti un sintomo preoccupante del cattivo funzionamento dei canali di partecipazione e di una crisi strutturale dei meccanismi di rappresentanza, fondamentali per un sano processo democratico (Raniolo, 2007: 203).

Detto in altri termini, tra una nazione con una elevata percentuale di votanti e una con un basso livello di affluenza ai seggi, non avremmo dubbi nell'individuare nella prima un sistema politico con un miglior funzionamento della rappresentanza e in ultima istanza della democrazia.

E' innegabile, infatti, che il voto rappresenti "lo stadio finale del processo di partecipazione, in quanto presuppone un certo grado di interesse, d'informazione e forme preliminari di comunicazione. Pur non essendo considerata come la forma più significativa di partecipazione, né la via più immediata per incidere sul processo di decisione politica, la partecipazione elettorale nella cultura europea esprime un senso minimale di cittadinanza e d'appartenenza alla comunità politica. Inoltre, sul piano della ricerca, il voto è certamente il comportamento più controllabile" (Cuturi, Sampugnaro, Tomaselli, 2000).

Gli studi sul comportamento elettorale per lungo tempo sono stati monopolizzati da due prospettive di ricerca, la teoria della scelta razionale (Downs, 1957) e la teoria della socializzazione, detta anche dell'identificazione di partito. Studi relativi alla psicologia cognitiva e a quella sociale hanno successivamente portato allo sviluppo di un nuovo ambito di ricerca, la cognizione politica, che studia il ragionamento dell'elettore impegnato nella scelta di voto.

Al di là delle argomentazioni teoriche (fondamentali per inquadrare e meglio comprendere i caratteri del fenomeno dell'astensionismo) resta, comunque, una realtà incontrovertibile: una ridotta partecipazione elettorale non rappresenta soltanto un segnale di disaffezione nei confronti del sistema politico e dei partiti, ma può determinare a lungo andare una progressiva (e pericolosa) delegittimazione delle istituzioni democratiche: "Nell'Ottocento, uno dei maggiori problemi delle democrazie borghesi è stato quello di portare l'elettorato a votare e di fare sì che l'astensionismo non aumentasse, separando la società civile da quella politica per cui la seconda finiva con il non rappresentare la prima negli organi politici che si venivano formando per integrare "i cittadini" nelle comunità nazionali. A questo fine e, in un secondo momento,i politologi e i sociologi, iniziarono a comprendere la centralità strategica dei sistemi elettorali per la lotta politica e le sue conseguenze sul piano istituzionale e sulla forma di governo" (Noiret, 2006).

Mentre esiste un'ampia letteratura scientifica e un'altrettanto diffusa pubblicistica sull'analisi del voto degli italiani (per tutti le preziose ricerche periodiche dell'Itanes), molto meno numerose sono state,invece, le ricerche interamente dedicate ad analizzare il fenomeno dell'astensionismo, anche perché ancora sul finire degli anni sessanta gli stessi ricercatori dell'Istituto Cattaneo si dicevano convinti che in un Paese che fino ad allora aveva una media di partecipazione alle urne stabilmente superiore al 90%  «lo studio dell'astensionismo non presenta particolare interesse per l'Italia» (Raniolo 2007: 221).

Il tema della non partecipazione sarebbe, così, entrato progressivamente nell'agenda degli studi elettorali italiani solamente a partire dai primi anni ottanta, in particolare dopo le elezioni politiche del 1979, dove peraltro la crescita dell'astensionismo era stata di pochi punti percentuali rispetto alle consultazioni precedenti ed era stata, per di più, significativamente amplificata da una modifica legislativa sull'iscrizione dei cittadini residenti all'estero nelle liste elettorali dei comuni d'origine: "A partire dal referendum del 1974 sul divorzio, una nuova fase è sembrata aprirsi nella storia elettorale italiana, caratterizzata da una lenta ma costante crescita del fenomeno astensionista, che ha indotto molti a vedere nel fatto l'inizio di un irreversibile processo di avvicinamento della situazione italiana a quella delle altre democrazie occidentali, dove i tassi di astensionismo sono di norma largamente superiori ad un quarto degli aventi diritto" (Corbetta e Schadee, 1983).

A contribuire a questa pluridecennale «disattenzione» verso il fenomeno dell'astensionismo, ha certamente contribuito anche la stessa modalità di calcolo adottata in Italia (e in quasi tutti i Paesi), per l'assegnazione dei seggi che prende come base il totale dei soli voti validi: "i risultati dell'elezione si basano sui voti validi, per cui l'analista politico è più interessato a questi che al comportamento di quella parte dell'elettorato che non ha un'azione diretta sull'esito elettorale" (Corbetta e Schadee, 1983).

Nel 1989 Franco Ferrarotti, provocatoriamente, era arrivato a sostenere che "Mi meraviglia che nessuno sembri interessato a capire perché aumentano gli astensionisti, chi sono, dove vivono. Il fatto è che in Italia gli astensionisti non contano. I «rapporti di forza», vale a dire il numero degli eletti, si giocano tra i partiti, in Italia, sui voti validi. Si suppone che schede bianche, annullate, elettori assenti al voto siano persone che «volontariamente» chiedono che di loro non si tenga conto".

Ed ancora: "Non può stupire, da questo punto di vista, la sostanziale rimozione del problema astensionismo. Da un lato, infatti, l'astensionismo si mantiene a lungo su livelli molto bassi, fra i più bassi dell'Europa occidentale (forse anche in forza di norme intrinsecamente intimidatorie, come quelle sull'obbligatorietà del voto). Dall'altro, la questione degli astensionisti - cioè di elettori non occasionalmente o casualmente astenutisi dal voto, ma in qualche modo inclini a esprimersi ripetutamente nella forma del rifiuto di voto - è questione inquietante, fastidiosa, persino pericolosa pet gli equilibri di un sistema politico abituato a usare il dato elettorale come ratifica più che come verifica del consenso".

In realtà, è proprio attraverso una attenta analisi di un fenomeno complesso e articolato come quello dell'astensionismo che si possono ottenere indicazioni e segnali interessanti per avere maggiore consapevolezza delle origini dei limiti e le debolezze attuali del sistema politico e, al fondo, della stessa democrazia italiana.

Prima di approfondire i tratti peculiari dell'astensionismo italiano, appare necessario sottolineare come il declino della partecipazione elettorale nel nostro Paese si inserisca in una macro tendenza che vede nel secondo dopoguerra, un trend di decrescita costante della percentuale di votanti in tutti i maggiori stati europei e negli Stati Uniti.

Gli schemi interpretativi dell'astensionismo e della sua progressiva tendenza all'incremento nelle maggiori democrazie occidentali sono, in estrema sintesi due (Corbetta e Parisi, 1994).

La prima tesi, soprattutto di derivazione americana, fa dipendere il variare della partecipazione elettorale dalla mobilitazione partitica: più informazioni e stimoli riceve l'elettore prima e durante la campagna elettorale e maggiore sarà la sua propensione ad esercitare il diritto di voto.

Il progressivo indebolimento della capacità di mobilitazione dei partiti e l'affievolimento dell'identificazione di partito, sarebbero, perciò, all'origine dell'aumento dell'astensionismo, in particolare nei gruppi sociali più marginali.

La seconda tesi (Caciagli e Scaramozzino, 1983 e Ferrarotti,1989), attribuisce,invece, un ruolo di protagonista non più all'attività di mobilitazione del partito, ma all'elettore.

Di conseguenza «anche la non partecipazione diventa un fatto intenzionale, un comportamento attivo, un altro modo di votare» (Corbetta e Parisi, 1984) per cui «astensionismo come comportamento intenzionale non significa, perciò, comportamento privo di valenze simboliche e di significati espressivi» (Ferrarotti, 1989).

Le serie storiche sui votanti nelle elezioni politiche in Italia indicano in tutta evidenza come il nostro Paese, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, si stia progressivamente allineando alla media dei principali paesi europei, perdendo così una delle sue caratteristiche peculiari: quello di avere uno dei sistemi politici con i maggiori tassi di partecipazione al voto.

Una sorta di «normalizzazione» che arriva da lontano, generata da un progressivo affievolimento - a partire dagli anni '80 -  della funzione stabilizzante rappresentata dall'identificazione di partito a cui ha fatto seguito, con fasi alterne, anche il declino dell'impianto ideologico e di coesione sociale rappresentato dalle cosiddette «subculture rosse, bianche, verdi e...... azzurre» (Diamanti, 2009).

Nel passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, la scelta di non votare è andata, poi, progressivamente mutando nelle forme e nei comportamenti dei singoli elettori «astenuti volontari».

Infatti, da una forma di «astensionismo di alienazione» (sostanzialmente irrilevante e «fisiologica» fino alle elezioni politiche del 1979) di un limitato nucleo di elettori marginali, la non partecipazione al voto, è andata progressivamente caratterizzandosi per una precisa e consapevole decisione di contestazione: un «astensionismo di opinione» con caratteri di intermittenza e di selezione relativamente all'importanza delle elezioni e all'utilità del voto - talvolta della propria parte politica e più in generale nei confronti delle istituzioni rappresentative e dei partiti.

Infatti, se nel passato il disertare le urne rifletteva l'estraneità e il distacco radicale di una parte largamente minoritaria dell'elettorato, con una concentrazione in territori dove era minore la presenza e il radicamento dei partiti tradizionali, a partire dalla seconda metà degli anno Novanta il rifiuto del voto ha assunto sempre più il significato di un atto intenzionale compiuto da cittadini informati sulle vicende politiche, demotivati al punto di negare volontariamente il loro consenso ai partiti (Tuorto 2010).

Ecco perché a compie il gesto di non votare è giusto e nel contempo utile, dedicare la stessa attenzione che normalmente viene rivolta nei confronti dell'aggregato dei votanti (e dei voti validi).

Se, infatti, è fisiologico in una democrazia matura come quella italiana osservare una quota di astensionismo cronico, non può essere sottovalutata la costante crescita del numero di «elettori intermittenti» che decidono, a seconda della competizione (comunale, regionale, politica) e della valutazione dell'offerta partitica e di leader del momento, di recarsi al seggio oppure disertare le urne.

Essendo in discesa a partire dalla seconda metà degli anni 2000, nei diversi schieramenti tradizionali, quello che con una efficace immagine è stato definito lo «zoccolo duro» (della Porta 2009), si può comprendere facilmente come sempre più le campagne elettorali, in futuro, saranno orientate a convincere gli «elettori intermittenti» ad andare a votare per la propria parte, in un sistema politico caratterizzato sempre più da elevati tassi di volatilità e di mobilità elettorale.

Sempre più presente nel dibattito pubblico è,infine, il tema della critica radicale al funzionamento della «democrazia rappresentativa» e alla sua insufficiente capacità, a detta dei suoi critici, di dare risposte tempestive ed adeguati a fenomeni epocali come quello della globalizzazione e dell'immigrazione.

A differenza di altri momenti di crisi, cresce nell'opinione pubblica europea, sotto la spinta della propaganda di movimenti populisti e etno-regionalisti, l'idea che si possa tranquillamente fare a meno dei partiti e anche di molte, se non tutte, le istituzioni rappresentative, a cominciare dai Parlamenti, zeppi di «vecchi arnesi» della politica novecentesca.

Una ragione in più, quindi, per andare in profondità a comprendere le ragioni e le motivazioni che sono all'origine del fenomeno dell'astensionismo in Italia, spia di un disagio e di un malessere profondo nel rapporto tra cittadini e politica.

(*) Dall’introduzione di "Fuga dalle urne. Astensionismo e partecipazione elettorale in Italia dal 1861 a oggi" Libro scritto da Federico Fornaro ed appena uscito per Epoké edizioni.

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